Nel 1231 il canonico Silvestro Guzzolini da Osimo († 1267) fonda il monastero di S. Benedetto di Montefano presso Fabriano, che diventa il centro propulsore della propria istituzione. Per la sua Congregazione, approvata canonicamente dal pontefice Innocenzo IV il 27 giugno 1248 con il privilegio Religiosam vitam, egli adotta la regola di s. Benedetto da Norcia. Lo stesso s. Benedetto appare in visione a Silvestro invitandolo «a scegliere la sua regola e il suo abito» (Vita Silvestri, cap. 4). Optando per una tale proposta di vita, «toltosi il vecchio vestito clericale», Silvestro riceve «con immensa gioia da un venerando monaco di nome Pietro, detto Magone, il medesimo abito con il quale gli si era mostrato vestito il beato Benedetto» (ibidem). La Vita, tuttavia, non specifica il luogo e il tempo dell’avvenimento: probabilmente in una delle abbazie del territorio di Fabriano.
L’abito dei primi monaci silvestrini è la cocolla de gattinello: una «veste ruvida» (Vita Silvestri, cap. 6) di lana grezza, di colore grigio o misto, risultante dalla combinazione del cenere con il lionato, nota anche come pannus fratescus, «coloris cinericii, seu pseudolactini» (Du Cange); con molta probabilità il colore della cocolla silvestrina era simile a quello dell’abito di s. Francesco, conservato nella chiesa di S. Chiara in Assisi. Per tale motivo i religiosi di Montefano nel Medioevo erano conosciuti, al pari dei Vallombrosani, come monaci grisei (Chronicae di s. Antonino). La cocolla silvestrina, povera e semplice, è il segno esterno della «vita penitente» propria dei monaci di Montefano; essa è usata in coro, a refettorio (fatta eccezione per il cellerario e i servitori di mensa), a letto (fino all’inizio del Trecento). Per il lavoro i monaci indossano lo «scapolare»: una tonaca corta con cingolo, pazienza e cappuccio, cioè l’abito dei conversi. Per quest’ultimi il rivestirsi della cocolla rappresenta un privilegio, di cui vengono privati definitivamente («perpetuo») in caso di colpe particolari: ribellione ai superiori, spergiuro, diffamazione. Una cocolla dello stesso colore, ma più leggera, è prevista per il priore generale «propter dignitatem et commoditatem portandi» (Cost. del sec. XIII, II, 5 , 7 e 20; III, 7; IV, 3).
Il colore grigio assume con il tempo varie gradazioni (bruno, fulvo, lionato) fino a diventare tanè (tonalità di castano fra il nero e il rosso) nel sec. XV. È possibile ricostruire una tale evoluzione attraverso l’iconografia di s. Silvestro.
De gattinello tendente al bruno è la cocolla del santo raffigurato dal pittore senese Segna di Bonaventura - discepolo di Duccio di Boninsegna - nell’anta di un trittico (1330 ca) conservato nel Metropolitan Museum of Art di New York. L’opera probabilmente fu commissionata dai Silvestrini di S. Spirito di Siena, monastero fondato nel 1311 e aggregato alla Congregazione di S. Giustina nel 1437.
Nel polittico di Fiorenzo di Lorenzo, eseguito tra il 1487 e il 1493 per la chiesa silvestrina di S. Maria Nuova di Perugia ed ora nella Galleria Nazionale dell'Umbria, s. Silvestro indossa un abito di colore lionato chiaro al pari dei suoi monaci raffigurati nei riquadri laterali.
La cocolla del santo nella tavoletta votiva dell’Archivio di Montefano (fine del sec. XV) è di color tané: per la prima volta s. Silvestro è rappresentato con la barba.
Nel 1586 il visitatore apostolico Timoteo Bottoni impone la riassunzione della «cocolla» e dell’«antico abito regolare» dell’Ordine, dismessi all'epoca della commenda (1325-1544) «per portar la berretta da preti» (Moronti, 32r).
Le costituzioni silvestrine del 1610, reputando impossibile nella situazione dell’epoca («hoggidì») «far le cocolle di gattinello et portare le scarpe all’apostolica secondo il costume antico de la Congregatione», in quanto «quel vestire aspro presuppone la vita eremitica, come facevano i nostri santi padri antichi», dispongono che la cocolla «dalle maniche larghe» si indossi «in chiesa et in capitolo nelli giorni solenni» e al di fuori del monastero «se il tempo cattivo non impedisce» (II,12). L'abito normale consiste nella «cocolla piccola»: «veste lunga con la patienza larga et cappuccio di sopra». Il colore è il fulvo o lionato. I conversi indossano una tonaca più corta (sino a metà gamba) e uno scapolare più stretto «et nell'andar fuori del monasterio alle processioni o altrove dentro i luoghi habitati, o terre, o città, o castelli che siano, non portino mai la cocolla grande, ma il mantello sopra la patienza et il cappuccio in testa con il cappello sopra» (II, 19).
Per il testo legislativo del 1618 non è permesso «uscire di camera senza l'habito monastico [= cocolla piccola]; né meno in camera senza necessità sia lecito spogliarsi dell'habito, massime per dormire, dovendosi dormir con l'habito monastico, e non rimaner mai senza quello né di giorno, né di notte» (I, 7).
Nel 1663 Alessandro VII ordina che i monaci delle Congregazioni Silvestrina e Vallombrosana, uniti in un solo organismo, adottino un abito di colore nero con collarino di lana bianca per uniformarsi agli altri ordini monastici; usino cocolle e cappucci di forma identica; portino la barba.
Sciolta l’unione, le costituzioni silvestrine del 1690 stabiliscono «che tanto la cocolla maggiore e minore, quanto il mantello lungo siano al possibile del medesimo color tanè o lionato che pieghi all'oscuro, dovendosi fuggire la varietà de’ colori»; i conversi «non possino portare in alcun luogo o tempo la patienza larga, ma stretta non eccedente la punta delle spalle, e nella lunghezza tanto la veste, quanto la patienza, non oltrapassi la metà della gamba» (I, 20).
Nelle raffigurazioni di s. Silvestro e dei beati silvestrini dei secoli XVII-XVIII prevale il color tanè con varie gradazioni. In alcuni casi è usato il nero. La cocolla ha ora le maniche più ampie che in antico e cade in pieghe fluenti.
Nel corso del Settecento il tanè è sostituito con il turchino e poi con il blu. L’abito perde in semplicità e più volte i capitoli generali e le diete sono costretti ad emanare decreti contro le innovazioni nella forma e nel colore, richiamando all’osservanza delle costituzioni: «Le vesti de' sacerdoti sieno veramente talari, non tanto strette, ed egualmente cucite e chiuse, fuorché avanti il petto»; in particolare si interdice ai conversi l’uso del colore violaceo per le «calzette, cinte e ferraiuoli» e si ribadisce che il loro abito non oltrepassi «dimidietatem cruris» (aa. 1758, 1778, 1791). Si richiama anche l’uso della cocolla, sia in coro sia in viaggio, e pertanto «unusquisque monachorum professus, choro addictus, teneatur habere cucullam, proprium monachi habitum. Quod si contingat, aliquem illorum eam non habere, sub poena suspensionis a divinis adigatur ab eius abbate eam sibi comparare infra sex menses» (Cap. gen. del 1776). La stessa disposizione viene ribadita nei capitoli generali del 1803 e del 1824, il primo dopo la restaurazione, in quanto alcuni monaci «ob temporum circumstantias», hanno abbandonato l'uso della cocolla, «habitum vere monachorum proprium».
L’iconografia silvestrina a partire dalla seconda metà del Settecento ci presenta i monaci rivestiti della cocolla turchina o blu con il collarino bianco.
Secondo le costituzioni del 1838 i «vestimenti» dei monaci silvestrini sono la cocolla, la tonaca, lo scapolare, il cappuccio e il mantello «di color blù come al presente»; per la «cinta» e le «calzette» è previsto il colore nero, «restando affatto proibiti i colori aperti e sfacciati». L’uso della cocolla è limitato al coro nei giorni di solennità. I conversi hanno una tonaca più corta di quella dei corali, «lo scapolare più stretto, la cinta e le calzette turchine»; nelle processioni è loro consentita la «cocolla stretta colle maniche curte». Ai corali resta proibita la «veste curta in monastero e chiesa, solo si permette in viaggio» (I, 16).
L’abito assume una forma sempre più elegante. Dalle fotografie dei monaci silvestrini nella seconda metà dell’Ottocento risulta che la cocolla è molto ampia e presenta numerose di pieghe; anche lo scapolare non ha più un andamento piano e cade in tre pieghe: due sono rivolte all’interno e una - quella di centro - all’esterno; la «cinta» o fascia scende doppia sul lato sinistro con frange. Completano l’abbigliamento il ferraiolo o mantello, fermato sul davanti con due fettucce di stoffa, e il cappello di velluto con fiocco.
La legislazione del 1931 stabilì che l'abito, comprendente «la tonaca, la cinta, lo scapolare, il cappuccio e la cocolla» fosse «del colore tradizionale turchino-scuro».
Nel capitolo generale del 1933 fu decretato di adottare «per uniformità... il colore nero, invece delle diverse gradazioni del bleu fino adesso in uso. L'abito corale rimane immutato». Così è al presente.
In Sri Lanka, in India e nelle Filippine i monaci usano un abito di colore bianco con fascia nera. In Australia l'abito bianco è opzionale.