Silvestro, uomo dello Spirito, al pari di altri fondatori monastici, non ha tradotto in formule giuridiche la propria intuizione carismatica: egli è stato soprattutto il testimone, il maestro, l'ispiratore del suo movimento. La Vita evidenzia il ruolo che Silvestro ebbe ai primordi dell'Ordine di Montefano quale «padre spirituale, sollecito nel reggere i fratelli». L'esperienza di Silvestro, al pari di quella di Benedetto, fu inizialmente eremitica sul modello degli antichi padri del deserto, e si presentò come una rilettura della grande tradizione benedettina nel contesto religioso e socio-culturale marchigiano del Duecento. Silvestro seppe leggere i segni dei tempi e cogliere i fermenti innovatori della sua epoca, mentre il monachesimo tradizionale era in crisi. Nel secolo XIII, infatti, le abbazie delle Marche, per la consistenza dei beni patrimoniali, per il numero delle chiese dipendenti e per l'autorità dei loro abati, avevano più incidenza politica ed economica che spirituale. Silvestro mirava a una fondazione nuova, libera dai vincoli di precedenti tradizioni feudali e rispondente alle nuove esigenze, pur nella fedeltà alla regola di san Benedetto. Egli adottò per il suo movimento il sistema congregazionistico, maggiormente efficace per garantire l'indipendenza e l'autonomia dei monasteri di fronte alla potenze temporali. Il desiderio di sganciarsi totalmente dall'ambito feudale si avverte in Silvestro anche nella scelta del titolo di «priore» al posto di quello di «abate», diventato ormai sinonimo di feudatario ricco e potente.
Silvestro, senza dubbio influenzato dal fenomeno francescano (nel 1234 fu presente alla fondazione del primo convento dei frati minori a Fabriano), che viveva ancora il momento più eroico, riaffermò i valori della vita monastica incarnandoli in forme nuove, rispondenti alle esigenze della società medievale. Egli conferì un carattere pauperistico al suo movimento, introducendo la pratica della questua e proponendo alle comunità da lui fondate uno stile di vita povero, semplice e austero, in sintonia con lo «spirito» innovatore del secolo XIII. I discepoli di Silvestro, infatti, indossavano una «veste ruvida» e a mensa non conoscevano varietà di vivande, né mangiavano cibi ricercati o gradevoli al palato, ma praticavano un costante digiuno (Vita, cap. 6). Evidente è anche l'orientamento eremitico in Silvestro, sia come scelta personale, sia come impostazione di fondo delle sue comunità: «eremi» erano denominati negli atti notarili alcuni monasteri «dell'Ordine di fra Silvestro», come Montefano, San Bartolo presso di Serra San Quirico, San Bonfilio presso Cingoli, San Marco di Ripalta, Santi Marco e Lucia di Sambuco, dove si conduceva «vita penitente» nella solitudine; «eremiti» erano considerati i monaci delle prime comunità silvestrine; a Montefano era praticato anche l'eremitismo: ci è noto il caso di Giovanni solitario, uno dei primi compagni di Silvestro a Montefano, che trascorse i suoi giorni «fuori del cenobio» in una cella costruita «nella parte superiore del monte» (Vita, cap. 34).
Silvestro, secondo il biografo, è «l'uomo di Dio» protagonista di una meravigliosa ascesa nella fede e nella virtù: egli era «devoto nei pensieri, affabile nel colloquio, segnalato per la prudenza e la temperanza, saldo nell'umiltà e nella stabilità: in una parola, fioriva davanti al Signore con ogni genere di virtù» (Vita, cap. 3). Più avanti il biografo lo descrive di «aspetto angelico, pieno di fede, risplendente di sapienza, benevolo nell'ospitalità, generoso nell'aiuto materiale, attento alla predicazione, sollecito nel guidare i fratelli, assiduo nella santa meditazione, egregio e dotto predicatore, pietoso visitatore degli infermi, consolatore degli afflitti» (Vita, cap. 6). Silvestro era dotato del carisma della paternità spirituale e dello spirito di profezia e godeva della familiarità con tutte le creature, soprattutto con le bestie feroci, come sperimentano i tre visitatori di Fabriano che trovano l'eremita Silvestro in compagnia di un lupo, «custode fedelissimo» della grotta del santo (Vita, cap. 7).
Intensa fu anche l'esperienza mistica di Silvestro: la visione del sepolcro di Cristo (Vita, cap. 25) e la comunione dalle mani della beata Vergine (Vita, cap. 26) rappresentarono per Silvestro il culmine della sua «comunione» con Dio. Ne conseguirono un accrescimento dell'amore per la passione di Cristo, una particolare «intelligenza» della Scrittura, il potere taumaturgico e il dono della profezia. In tal modo l'uomo di Dio giunse alla pienezza della vita carismatica, suggellata con la morte, ultimo e sublime slancio dello spirito, che anela all'unione con Dio.
La Vita Silvestri, seguendo i canoni del genere agiografico medievale, offre poche notizie biografiche, mentre riferisce un gran numero di prodigi che devono dimostrare la potenza di Dio operante nel suo fedele. Lo scopo della Vita è soprattutto quello di presentare la figura carismatica del protagonista partendo dal concetto biblico di «uomo di Dio» e di storia come «storia della salvezza». Il fine è educativo e la scelta dei fatti obbedisce a questo criterio, per cui la narrazione privilegia eventi straordinari: visioni, profezie, guarigioni, prodigi di vario genere. Numerosi sono i miracoli attribuiti dalla Vita all'intercessione del Santo (guarigione di lebbrosi, ciechi, storpi, zoppi, paralitici, indemoniati): in proposito il biografo si premura di riferire le testimonianze di persone ancora viventi.